La
Decima Tacca
La
prima cosa che Edvard percepì riprendendo conoscenza fu il gusto
della terra e del sangue che gli avevano impastato la bocca.
Poi
fu l'odore pungente e soffocante del fumo a risvegliarlo del tutto e
a riportarlo alla realtà.
Sbattendo
gli occhi si sforzò di aprirli. Erano incollati dal sangue che gli
gocciolava da un taglio sulla fronte e, solo dopo qualche tentativo,
riuscì a mettere a fuoco la scena che lo circondava.
Cadaveri!
Era
attorniato dai corpi martoriati della gente del suo villaggio.
Con
gli occhi sbarrati dall'orrore si guardò intorno, mentre calde e
amare lacrime scivolavano copiose, lasciandogli candidi solchi sulle
guance sporche di terra e cenere.
Alte
e colorate, le fiamme si alzavano dai tetti delle capanne, sembrava
danzassero allegre dentro al fumo che saliva nero nel cielo,
incuranti e indifferenti ai corpi riversi nella desolazione della
morte.
Tutto
intorno a lui gemiti di dolore provenienti
dai feriti coprivano il crepitare delle
fiamme, mentre i soldati romani passavano tra i moribondi mettendo
fine alle loro sofferenze.
Edvard,
steso a terra, la coscia trafitta da una freccia, il braccio sinistro
che non rispondeva ai suoi comandi, un piccolo ma doloroso taglio
sulla fronte, osservava la scena come fosse stato uno dei numerosi
corvi che volavano alti nel cielo pregustandosi il bacchetto che li
attendeva.
Non
voleva credere a ciò che vedeva, non voleva accettare la nuda e
cruda verità.
A
pochi metri da lui, la sua casa, quella stessa casa di legno e
paglia, spartana ma confortevole, in cui era cresciuto felice e
spensierato fino a poche ore prima, stava bruciando, ed era sicuro
che al suo interno, se avesse avuto la forza e il coraggio di andare
a controllare, avrebbe trovato il corpo di sua madre e di sua
sorella.
Probabilmente
le avevano violentate o forse, se erano state fortunate, una spada
pietosa aveva messo velocemente fine alle loro sofferenze. Il padre,
invece, ricordò all'improvviso con un brivido di dolore, giaceva
pochi metri più in là trafitto al petto da tre frecce di quegli
assassini che avevano colpito a tradimento. Era morto quasi subito
fra le sue braccia, non una parola, non un gemito, solo un'ultima
carezza sul viso del figlio. Un saluto e la speranza che almeno lui
sopravvivesse a quella carneficina annunciata.
Ma
Edvard ricordava ancora le storie tremende che gli anziani
raccontavano la sera vicino al falò, sulle sorti dei prigionieri di
guerra dei romani.
Mormoravano
spaventati che gli invasori bruciassero vivi su un enorme rogo i
superstiti alle loro stragi o che li legassero ad una croce,
lasciandoli poi a perire lentamente di dolore, fame e sete.
Edvard
non voleva finire così, non voleva morire tra atroci sofferenze.
Lui,
all'apparenza,
era solo un ragazzo ma per la gente del suo villaggio era già un
uomo e un guerriero. Per questo non si sarebbe arreso, non avrebbe
cercato una pietà inesistente nei suoi nemici, ma sarebbe morto
stringendo un'arma fra le mani, onorando così la sua famiglia, il
suo popolo e i suoi dei.
Il
suo braccio destro, l'unico che ancora funzionava, strisciò
lentamente sul terreno fino a che la sua mano non strinse l'elsa del
gladio nemico che giaceva abbandonato lì vicino. La punta era rotta,
la lama scheggiata, ma ad Edvard non importava, sarebbe bastata per
battersi. Sapeva che non sarebbe comunque sopravvissuto e che
scappare era impossibile. Quindi l'unica sua speranza era cercare una
morte rapida ed indolore battendosi contro i suoi nemici.
Puntellando
il gladio contro il terreno diventato fangoso dal sangue versato e
dalla pioggia caduta quella notte, facendo leva con il braccio e la
gamba sana si tirò in piedi e osservò la pattuglia di cinque
soldati che si stavano avvicinando cercando, fra i corpi dei morti,
quelli dei loro compagni disseminati sul terreno per dar
loro una degna sepoltura. I cadaveri dei
barbari, come li definivano i legionari, sarebbero stati invece
lasciati in pasto alle bestie selvatiche.
“Ehi,
guardate là. C'è ancora uno di quei bastardi in piedi.” La voce
del soldato romano coprì il crepitare delle fiamme e il gemito dei
moribondi.
I
suoi quattro compagni si voltarono, videro Edvard, e si avvicinarono
spavaldi e sicuri di sé. Lui li aspettava e quando il più assetato
di sangue gli si avvicinò stringendo il suo gladio, Edvard colpì
con tutta la forza che aveva.
Il
soldato si scostò illeso e scoppiò a ridere nell'osservare il
ragazzo finire a terra e provare ad alzarsi lentamente a causa delle
sue ferite.
“Questo
idiota vuole ancora combattere” esclamò il legionario ridendo di
lui mentre con un piede colpiva Edvard nel sedere facendolo
nuovamente cadere e rotolare nel fango.
Un
coro di risate scoppiò mentre i soldati, ancora ebbri del sangue
versato ed eccitati dalla facile vittoria riportata in quelle terre
ostili, additavano il ragazzo, divertendosi a schernirlo. Ma Edvard
non voleva cedere alla disperazione, e la certezza della sorte, che
pensava attenderlo se si fosse arreso docilmente a quegli assassini,
gli diede la forza di alzarsi ancora una volta in piedi. Poi
all'improvviso, radunando le ultime forze che aveva e tutta la rabbia
che provava, si scagliò con un ringhio contro l'uomo più vicino a
lui. I due caddero a terra in un groviglio di braccia e gambe e solo
l'intervento dei suoi amici salvò il soldato romano dalla morte.
Edvard infatti era riuscito a colpirlo con l'elsa della spada alla
testa e, se non lo avessero prontamente bloccato gli altri legionari,
lo avrebbe senz'altro finito in pochi secondi tagliandogli la gola.
I
soldati lo strattonarono via e lo misero in ginocchio tenendolo fermo
con le loro mani forti e robuste mentre lui, sporco di fango e
sangue, continuava a divincolarsi indomito. Poi il più anziano in
grado, mormorando frasi che Edvard non poteva capire, ma che
supponeva fossero insulti, alzò la spada con l'intento di
decapitarlo.
“Fermo
Lucio. Non lo uccidere” la voce del legato Publio Cornelio arrivò
ferma e perentoria. Era un ufficiale molto giovane, quasi un ragazzo,
piccolino e magro ma nonostante tutto aveva ottenuto presto la sua
posizione e il rispetto dei suoi uomini. Ma soprattutto aveva un
senso dell'onore tutto suo e un'arguzia per gli affari non
indifferente.
“Legatelo
e mettetelo con gli altri prigionieri. Lo porteremo a Roma e lo
rivenderemo come schiavo. È un buon lottatore a quanto pare e
scommetto che il nobile Claudio ce lo pagherà molto bene. Ha tutte
le carte in tavola per diventare un buon gladiatore.”
Edvard
non capì una sola parola di quello che il Legato disse e non ebbe
neanche occasione di ragionarci sopra perché perse subito i sensi
quando i soldati, dopo avergli legato le braccia dietro alla schiena,
lo colpirono alla testa per farlo stare fermo.
Lui
non conosceva la lingua di Roma e nemmeno i suoi usi o i suoi
costumi. Non sapeva cosa fossero i gladiatori né quale sarebbe stato
il suo futuro, ma presto l'avrebbe scoperto...
Presto
sarebbe diventato un famoso gladiatore, un secutor
amato e conosciuto con il soprannome di
Smargidus, smeraldo,
dovuto ai suoi occhi verdi, brillanti e splendenti.
Con
la fatica, il dolore e il coraggio dimostrato nell'arena ad ogni
combattimento, avrebbe presto conquistato l'affetto e il rispetto del
popolo romano e il cuore delle matrone che se lo contendevano,
ammaliate da quella grazia e agilità che lo contraddistingueva in
ogni duello.
E
il suo vero nome e le sue origini sarebbero andate dimenticate nel
corso degli anni, lasciando solo il suo soprannome impresso nelle
menti dei romani fino a quando...
* * *
“Smargidus,
sveglia c'è una ragazza che ti cerca.”
Edvard
aprì gli occhi lentamente, si tirò in piedi e iniziò a
stiracchiarsi come un gatto. Il suo corpo nudo, muscoloso e pieno di
cicatrici era cambiato da quando era stato portato e rivenduto come
schiavo alla scuola per gladiatori gestita dal nobile Caius, un uomo
che si mormorava fosse molto vicino all'Imperatore Domiziano e che si
era arricchito con i combattimenti dei suoi gladiatori, che allenava
e faceva esibire negli spettacoli più importanti della capitale.
La
sua scuola, la Ludus Magnus, era
famosa per la sua durezza ma i suoi gladiatori erano fra i migliori
combattenti esistenti in tutto l'impero, tanto che lo stesso
Imperatore Domiziano assisteva spesso agli spettacoli di lotta dentro
ad uno strapieno Colosseo che aveva contribuito ad ampliare.
A
chiamare Smargidus era stato un altro gladiatore soprannominato
Invictus, ossia l' invincibile. Nessuno ne conosceva il nome vero e a
nessuno importava di saperlo. Diventare gladiatori significava
dimenticare e cancellare il proprio passato. Non esistevano più
nomi, razze, origini, a distinguerli. Ora erano solo uomini, solo
gladiatori!
Erano
arrivati nello stesso periodo alla scuola di Caius, entrambi soli,
prigionieri e schiavi disperati. Avevano scoperto Roma e le sue
leggi, la sua lingua e le sue tradizioni ma, soprattutto il
significato della parola ubbidienza e, rassegnati al loro destino, si
erano allenati assieme duramente e con caparbietà, poiché entrambi
condividevano il grande sogno di riconquistare la loro libertà.
Lui
era grande e grosso, una montagna di muscoli dai corti capelli neri e
gli occhi scuri e sornioni. Un lago calmo e profondo in cui era
facile perdersi, uno specchio trasparente della sua anima allegra.
Ad
Edvard bastava guardarlo negli occhi per capire ciò che gli frullava
per la mente e adesso, lo sguardo divertito dell'amico, che lui
considerava come un fratello, lo mise subito sul chi vive.
Si
erano allenati con gli altri tutta la mattina e, dopo il pranzo, gli
erano
state concesse
un paio d'ore di riposo durante le quali Edvard si era addormentato
sfinito.
Aveva
combattuto in allenamento come al solito impugnando il rudis,
la spada pesante e smussata, contro Leo, il
leone, un altro suo grande amico chiamato così a causa della
capigliatura folta, riccia
e biondissima.
Leo
era un vero guerriero esperto. Aveva già vinto 15 incontri
all'ultimo sangue e dopo aver conquistato la libertà dal suo status
iniziale di schiavo e tre palme d'oro aveva scelto di rimanere ad
allenare ed istruire gli altri gladiatori. Ormai famoso aveva
dichiarato che quella vita era ciò che desiderava. Aveva sesterzi in
quantità e donne che lo cercavano per i suoi favori dentro e fuori i
letti. Insomma non gli mancava nulla, ma malgrado la vita agiata che
tutti loro avrebbero potuto conquistare con il sudore e il sangue
versato, Edvard non avrebbe mai continuato a vivere lì come aveva
scelto Leo. Combatteva per la sua libertà proprio come Invictus e,
sul collare che gli
ricordava la sua condizione di schiavo,
erano già incise nove tacche.
Una
ancora.
Gli
sarebbe bastato vincere ancora un altro incontro all'ultimo sangue e
sarebbe stato finalmente libero.
Con
gli scontri minori, quelli nei quali nessuno moriva, ma che servivano
solo a divertire il pubblico e far lievitare le tasche a Caius,
aveva infatti accumulato già un discreto
gruzzolo che teneva nascosto dentro al proprio cuscino. Sesterzi che
lui incrementava anche in un
altro modo e che gli avrebbero permesso di rifarsi una vita una volta
libero.
Rapido
si vestì sotto gli occhi divertiti di Invictus, “Cosa hai da
ridacchiare?” gli chiese capendo al volo che l'amico gli nascondeva
qualcosa.
Invictus
si strinse nelle spalle divertito. “Voglio vedere la faccia che
farai quando incontrerai la ragazza che ti aspetta.”
Edvard
non aspettava nessuno e la curiosità aumentò mentre sorrideva al
compagno d'armi, “E' brutta?”
“Non
saprei. Dipende se ti piacciono le cerbiatte come lei o se preferisci
le tigri arrabbiate come Agrippina.” Commentò alludendo alla
matrona che Smargidus incontrava regolarmente, in cambio di sesterzi,
per soddisfare i bisogni carnali della sua ammiratrice pazza di lui.
Edvard
sbuffò, e dando una pacca alla poderosa spalla dell'amico si avviò
al grande vestibolo sul quale si affacciavano la porta d'ingresso e
numerosi corridoi e scale che portavano alle varie stanze e alle
celle adibite a camere nelle quali riposavano i gladiatori. Da lì
inoltre si poteva anche accedere direttamente al cortile interno
usato per allenarsi o esibirsi davanti ad un piccolo pubblico.
La
ragazza era ferma in piedi e si guardava intorno incuriosita ma
quando sentì i passi fermi e sicuri di Edvard, intimidita si
affrettò ad abbassare la testa.
Accompagnava
sempre la sua padrona a vedere i gladiatori combattere al Colosseo ed
era nervosa all'idea di conoscere Smargidus, l'idolo di tutte le
donne di Roma.
Lui
entrò tranquillo e le si avvicinò.
“Ti
conosco?” Le chiese incuriosito mentre i suoi occhi vagavano sul
corpo di lei, soffermandosi sulle gambe lunghe nascoste dall'ampio
vestito, sui fianchi stretti e sul seno rigoglioso al punto giusto.
“No...
io... mi manda la mia signora,” rispose lei balbettando e alzando
gli occhi su di lui per la prima volta.
Edvard
la guardò, le fissò il viso e socchiuse la bocca come per parlare
ma il fiato gli mancò mentre si perdeva dentro a due occhi enormi,
marroni, con mille pagliuzze d'oro al loro interno. I capelli lunghi
color castagna tirati indietro secondo le usanze del tempo,
incorniciavano un viso dolce e delicato su cui spiccava una bocca
piccola contornata da due labbra rosse e piene che sembravano
implorarlo di baciarle.
Per
un attimo entrambi rimasero in silenzio imbarazzati poi lei gli
allungò una pergamena arrotolata e chiusa da un nastrino.
“La
mia padrona ti manda questo messaggio,” sussurrò arrossendo
leggermente.
Edvard
la osservò, il suo meraviglioso sorriso sghembo dipinto sul viso
mentre sentiva il cuore battere vertiginosamente per poi bloccarsi
nel notare il collare di ferro che, come il suo, le cingeva il collo
lungo e delicato.
Era
una schiava, ed era sicuramente al servizio di Agrippina, pensò,
adombrandosi per la sorte di quel fiore raro e bellissimo che aveva
davanti.
Agrippina!
Sapeva
per certo che il messaggio proveniva da lei, la pergamena infatti
odorava di rose e gelsomino, il profumo che quella serpe in gonnella
metteva sempre.
Agrippina!
La
moglie del senatore Fabio Massimo che, ogniqualvolta suo marito si
allontanava, mandava lo stesso messaggio ad Edvard.
Lui
non aveva bisogno di leggere, sapeva esattamente che c'era scritto Ti
aspetto questa sera e lui ci sarebbe andato.
Si sarebbe presentato, l'avrebbe assecondata e avrebbe giaciuto con
lei, poi presi i sesterzi sarebbe tornato alla Ludus
Magnus.
Aveva
bisogno di quelle monete elargite in cambio dei suoi favori e, anche
se lei non gli piaceva e, anzi, la disprezzava, i suoi sesterzi,
uniti a quelli guadagnati facendo il gladiatore, gli avrebbero
permesso di avere una vita agiata una volta che avrebbe conquistato
la sua libertà, sempre che, il dio della morte, non decidesse prima
di prenderlo per mano e portarlo via con sé.
I
combattimenti erano sempre più duri e sempre più difficili e morire
non sarebbe stato poi così improbabile.
Aveva
visto molti amici rimanere feriti in maniera orrenda, restare
mutilati per sempre o, se il fato era favorevole, morire direttamente
nell'arena sotto gli occhi degli spettatori che urlavano il loro
giudizio.
“Morte!”
gridavano se non erano soddisfatti del coraggio dei combattenti ed
essa calava inevitabile sul gladiatore prescelto dalla folla per
soddisfare la sete di sangue del popolo romano.
Edvard
sorrise alla ragazza, poi le chiese “Come ti chiami?”
Lei
lo guardò e, abbassando gli occhi sui calzari mentre si mordeva il
labbro inferiore innervosita, mormorò “Livia. Il mio nome è
Livia.”
“E
allora Livia puoi riferire alla tua signora che staserà verrò da
lei,” rispose lui cercando di guardarla in volto ancora una volta,
poi aggiunse “Sei molto bella Livia, non privarmi dei tuoi occhi,”
Lei
alzò la testa di scatto, lo fissò e poi si girò scappando come una
cerbiatta inseguita dai cacciatori.
“Fermati,
non andartene. Rimani ancora qualche minuto con me,” le gridò
Edvard inseguendola con un balzo e bloccandola per un braccio.
“Devo
andare. Se arrivo tardi lei mi farà frustare,” asserì la ragazza
con la voce che le tremava.
Edvard
pensò che fosse spaventata e lasciando la presa le disse “Scusami.
Vai pure” poi si girò e si allontanò a grandi passi sparendo
verso il cortile interno dove Leo lo aspettava per l'allenamento
pomeridiano.
Isabella
rimase ancora lì un secondo, gli occhi fissi sulle sue gambe forti e
sulla sua schiena muscolosa. Nell'arena aveva potuto vedere il suo
fisico e le sue abilità, lì nella ludus
aveva visto da vicino i suoi occhi e il suo sorriso. Non aveva
tremato per la paura come lui aveva immaginato, ma per l'emozione di
sentire le sue mani forti stringerla a sé.
Quell'uomo
era qualcosa d'incredibile, di magico, ma lei sapeva che lui era al
disopra di qualsiasi speranza.
Quel
gladiatore era proprietà privata di Agrippina, la sua padrona. Un
sogno irraggiungibile per un’umile schiava come lei, un desiderio
che sarebbe rimasto per sempre tale.
*
* *
Edvard
arrivò puntuale alla domus
della bella Agrippina. Pur essendo uno schiavo, aveva il permesso e
la libertà di recarsi da lei. Claudio sapeva che fare incontrare le
matrone ai suoi gladiatori non faceva altro che rafforzare la loro
fama e smorzare la loro fame. Un connubio che faceva solo del bene a
tutti e soprattutto alle sue tasche.
Erano
infatti spesso i nobili, spinti dalle loro mogli, a richiedere gli
incontri, e Claudio guadagnava proprio su questi.
Stava
per bussare, quando il portoncino finemente decorato si aprì ed
Edvard si trovò davanti Livia.
“Benvenuto.
La mia signora ti sta aspettando,” mormorò lei sempre tenendo gli
occhi rivolti verso il terreno per non incrociare i suoi due
meravigliosi smeraldi. Aveva paura di tradire i suoi sentimenti, che
lui le leggesse in volto la lussuria che aveva iniziato a covarvi
profonda.
Lui
le sorrise mentre con due dita le alzò
il mento fino a perdersi nei suoi occhi color cioccolato.
“Te
l'ho già detto, sei molto bella. Non mi privare della vista del tuo
sguardo” poi senza preavviso attirato da una forza magnetica che
nessuno dei due sapeva potesse esistere, Edvard si avvicinò e posò
le sue labbra su quelle di Livia. I loro corpi tremarono e i loro
cuori iniziarono a battere forte all'unisono mentre lui metteva fine
a quella pazzia. Adesso li separavano pochi centimetri... metri,
chilometri parve loro non desiderando altro che toccarsi nuovamente,
che fondersi in un corpo solo.
“Smargidus,
finalmente sei arrivato!” La voce di Agrippina arrivò come un
tuono improvviso ad interrompere quel momento magico, a risvegliarli
e riportarli alla realtà.
Lui
sospirò e si affrettò ad allontanarsi ancora di più da Livia,
spaventato dalle conseguenza che lei avrebbe potuto patire se
Agrippina avesse intuito quello che era appena accaduto fra di loro,
cercando di mostrarsi meno turbato di quanto lo fosse in realtà da
quell'unico bacio e da quel corpo che continuava a gridargli di
stringerlo a sé e ad attirare i suoi occhi.
Venere,
la dea dell'amore, aveva appena approvato il loro incontro.
Le
piaceva quel profondo e violento desiderio di avvicinarsi e baciarsi
che entrambi avevano provato in quel fugace contatto rubato e
sorridendo beata benedisse quella nuova coppia e quel nuovo
sentimento facendolo sbocciare in maniera definitiva e inarrestabile
nel loro cuore.
Edvard,
pervaso da una strana energia che lo fece per un attimo tremare
violentemente, con calma studiata, calandosi sul viso una maschera
d'indifferenza e soffocando i propri desideri, si voltò sorridendo a
quella serpe a cui avrebbe venduto da lì a poco il suo corpo ma non
la sua anima.
Essa
ormai era stata rapita da Livia.
Agrippina
gli si avvicinò sinuosa come un gatto e il suo forte profumo entrò
nelle narici di Edvard che arricciò il naso per l'odore pungente
sforzandosi di sorriderle.
Lei
lo afferrò per le possenti spalle e lo baciò con passione incurante
della presenza di Livia, mentre lui allungava le mani accarezzandole
il collo dolcemente, cercando di concentrarsi su di lei per
risvegliare il suo corpo dormiente.
“Stasera
sei freddo nel baciare, Smargidus. Che cosa ti succede?” Gli chiese
Agrippina passando le dita sulle sue labbra ancora umide di lei.
Lui
scosse la testa “Sono solo stanco” si giustificò tirando le
labbra in un sorriso che lui stesso percepì essere falso.
“Oh
povero il mio Smargidus, dovrò sgridare quel cattivone di Claudio,
così non va bene. ” Rispose civettuola prendendolo per le mani e
attirandolo ancora più vicino a sé, poi, dopo un ultimo bacio
lascivo, si voltò di scatto “ Vieni, andiamo a letto. Hai bisogno
di riposare” affermò dandogli la schiena e tirandoselo appresso
per una mano.
Lui
la seguì accondiscendente e, mentre stava per uscire dal vestibolo
si voltò.
I
suoi occhi cercarono ed incontrarono quelli di Livia. Quelli di lei
erano tristi, addolorati e rassegnati ma si riscossero e presero vita
incendiandosi, quando lui muovendo solo le labbra senza emettere un
fiato le disse “Perdonami. ”
Agrippina
si rese subito conto che le cose non andavano come al solito.
Il
suo Smargidus sembrava distratto, distante, e non riusciva a capire
il perché di quel comportamento anomalo e freddo.
Irritata
pensò di punirlo nel solo modo che conosceva: giocando con lui.
Così
quando giunsero nella sfarzosa camera dove dormiva normalmente, dopo
avergli intimato di stare immobile e in silenzio, iniziò ad usarlo:
spogliandolo lentamente, accarezzandolo nei posti in cui aveva
imparato essere più sensibile, godendo della sua pelle morbida e
liscia, dei suoi muscoli potenti, del suo ventre piatto e del suo
pene che piano piano reagiva al tocco fugace della sua padrona.
Edvard
la guardava spogliarlo e giocare con il suo corpo, accarezzarlo
languidamente e stuzzicarlo senza sosta, senza poter reagire o
muoversi. Sapeva quanto Agrippina odiasse se lui le disobbediva e
quanto potesse essere crudele a letto, ma soprattutto cosa lei si
aspettasse da lui. Doveva in ogni caso sforzarsi di soddisfarla come
al solito per non attirare l'attenzione su Livia. Aveva paura che
Agrippina avesse scorto
la luce che aveva illuminato i loro occhi, il loro sguardo
disperato, la scintilla che aveva iniziato a bruciare nel loro
animo.
Era
avida e prepotente, ma non stupida, la sua benefattrice.
Così
chiuse gli occhi con un sospiro e immaginò che quel corpo femminile
e caldo appartenesse a Livia e che fosse lei lì vicino ad
accarezzarlo in maniera languida e vogliosa.
Quando
Agrippina lo vide fremere ai suoi baci, quando si rese conto che lui
non sarebbe riuscito ancora a trattenersi immobile di fronte a quella
tortura studiata, convinta di essere la causa del suo desiderio, lo
fece sdraiare sul letto e, sfilatosi la cintura di cuoio, gli legò i
polsi alla testiera di legno pregiato.
Lo
avrebbe fatto soffrire per la sua freddezza iniziale, lo avrebbe
torturato con studiata lentezza, lo avrebbe usato a suo piacimento
beandosi del suo bisogno e del suo corpo.
Edvard
la lasciò fare, non si oppose malgrado gli sarebbe bastato fare
forza per spezzare o sciogliere quell’insignificante legame.
Aprendo gli occhi la guardò curioso fino a che lei gli buttò sul
viso una pezza di cotone spessa e bagnata.
“Non
voglio che tu veda. Sentirai solo,” mormorò leccando le goccioline
d'acqua che scendevano lungo la sua gola scoperta.
Edvard
si irrigidì cercando di respirare sotto lo spesso panno mentre un
brivido violento di paura e lussuria lo scuoteva dal suo interno.
Ma
Agrippina non aveva finito con lui e dopo averlo percorso con le
labbra fino ai suoi lombi gonfi, soffermandosi a leccare e gustare il
suo sapore, giocando con le goccioline che inumidivano la punta della
sua mascolinità, istigandolo a un piacere che non gli avrebbe ancora
concesso, si alzò bruscamente e afferrò una delle tante candele.
Impietosa,
godendo dei suoi lamenti e dei suoi sussulti
improvvisi quando
la cera gli cadeva
sulla pelle provocando le piccole bruciature inaspettate, Agrippina
continuò a torturarlo sommessamente lambendo con la lingua e
succhiando avidamente le zone arrossate e calde che si avvicinavano
sempre di più ai suoi genitali in un lento ed estenuante percorso di
desiderio e paura che eccitava sempre di più entrambi.
E
quando fu stufa di quel gioco, quando il suo bisogno si fece
inarrestabile, senza preavviso, senza alcuna parola, tenendolo sempre
prigioniero della sua volontà lo montò come il cavallo di razza che
era, esplodendo insieme a lui.
I
loro gemiti di piacere non più trattenuti si alzarono rompendo il
silenzio della stanza, impietosi delle orecchie che dietro la porta
ascoltavano.
Livia,
accucciata nel corridoio, piangeva sommessamente immaginando Edvard
sopra la sua padrona montarla senza sosta, i suoi muscoli tesi, il
suo sorriso soddisfatto, i suoi occhi affascinati dallo spettacolo
mentre diventava rosso dallo sforzo e dal piacere che stava provando.
Ma
Livia non poteva sapere che sotto lo straccio bagnato, mentre il suo
amore proibito raggiungeva
il piacere per trovare la pace dei sensi
e soddisfare la sua benefattrice, Edvard piangeva e la sua bocca era
tirata in una smorfia di vergogna mentre la sua mente era concentrata
proprio su Livia... la donna con la quale immaginava e desiderava
fare sesso in quel momento. La fantasia che gli stava permettendo di
adempiere al suo dovere e soddisfare la bella e perversa Agrippina.
Ma
le orecchie di Livia non erano le sole ad ascoltare.
La
schiava Turia, dal passato oscuro, aveva ricevuto una missione, e con
un sorriso perverso disegnato sulle sottili labbra corse nella sua
stanza e scrisse un messaggio... un messaggio che avrebbe cambiato
molte cose e provocato molto dolore.
*
* *
Nella
settimana che seguì Edvard continuò la sua vita allenandosi ogni
giorno con la solita dedizione malgrado la sua mente fosse
perennemente altrove. Non aveva più rivisto Livia, gli era proibito
uscire senza autorizzazione e se avesse provato ad
uscire
di nascosto, sarebbe stato cercato e punito severamente per la sua
disobbedienza. Ma i suoi pensieri erano costantemente con lei.
Dov'era?
Cosa stava facendo? Gli mancava?
Lui
era confuso, non gli era mai capitato di essersi così fissato su una
donna. Di non riuscire a pensare ad altro che a quella meravigliosa
dea.
La
notte, nel buio della sua piccola e spoglia dimora,
quando la stanza agli sembrava chiudersi su
di lui fino a soffocarlo, Edvard, giacendo insonne sul duro letto di
paglia compressa, ripensava a lei. Ai suoi occhi marroni e dolci, ai
suoi capelli che, una volta sciolti sulle spalle, dovevano essere
folti e morbidi, alle sue labbra piene e carnose. Ricordava persino
il mite profumo di pulito e sapone che il suo corpo emanava. E, nel
silenzio del dormiveglia, la mano di Edvard scivolava in mezzo alle
sue gambe dove le ossa del bacino formavano una V perfetta appena
coperta di una morbida peluria ramata. Le sue dita lunghe smaniose e
impazienti andavano a cercare, sicure e senza timori, il suo membro
duro, stringendolo e percorrendolo lentamente per tutta la sua
lunghezza per poi ricominciare da capo in un movimento sensuale e
seducente che gli strappava dei gemiti soffocati di piacere, mentre
la sua mente era perduta dentro di lei, dentro al suo corpo, dentro
al desiderio che, sapeva, lo stava annientando.
“Smargidus.
Per favore, vuoi concentrarti?” La voce irritata di Invictus lo
richiamò alla realtà.
Edvard
si stava allenando con il suo amico, entrambi avevano stretto in
pugno un lungo e pesante bastone intagliato e smussato che imitava
nella forma un’ascia.
Era un’arma
inconsueta per entrambi, ma Leo insisteva
affinché si allenassero con le asce in legno per prepararsi a
qualsiasi eventualità e per allenare quei muscoli della schiena che
normalmente sollecitavano di meno. Erano rimasti soli ed erano ormai
stanchi, quando Smargidus scrollò le spalle scocciato dal giusto
rimprovero, e si sforzò di riportare la concentrazione su Invictus
che, fermo davanti a lui, lo osservava ridacchiando chiaramente
divertito.
“Smettila
di distrarti e cerca di allenarti seriamente. Domenica hai un
incontro. Te lo sei forse dimenticato?” Lo riprese il grosso
lottatore sorridendo e affondando con la sua arma contro quella di
Smargidus.
Edvard
si spostò rapidamente, parando il suo attacco e pronto a scagliarsi
ancora una volta contro di lui quando sentì una strana tensione nel
collo, come se una corrente d'aria improvvisa lo avesse colpito.
Tutto
il suo corpo prese a formicolare in allerta e lui voltò lo sguardo
per cercare la causa di quella strana sensazione, quando i suoi occhi
andarono a sbattere contro due pozzi marroni dolci e ammalianti.
Per
un attimo si bloccò, il tempo sembrò fermarsi per lui, mentre
invisibili catene gli si stringevano intorno alla
gola rischiando di soffocarlo.
Livia
era lì.
Seminascosta
da una colonna lo osservava con gli occhi brillanti ed eccitati. Era
sgusciata silenziosa come una ladra all'interno della Ludus
per cercarlo e adesso da quella posizione così ravvicinata poteva
vedere i muscoli di Smargidus contratti e lucidi di sudore, le sue
gambe tornite e snelle piantate nel terreno come tronchi d'albero e
il cuore le batteva
forte dall'emozione.
Neanche
lei aveva più dormito serena. Lo aveva visto di nascosto
allontanarsi dopo che la sua padrona lo aveva pagato e lasciato
libero. Aveva ascoltato i suoi gemiti e lo aveva odiato. Ma per
quanto si sforzasse non era riuscita a dimenticarlo. Non era riuscita
a scordare i suoi occhi verdi, profondi e teneri, lo sguardo
affascinato e lussurioso che le aveva rivolto, la sua voce roca e
sensuale mentre le diceva di guardarlo e soprattutto le sue labbra
che avevano mimato quell'unica parola piena di speranza e rimpianto.
No! Decisamente non solo non riusciva ad odiarlo, ma aveva bisogno di
rivederlo.
Smargidus
era entrato nei suoi sogni e nei suoi pensieri. Si era insinuato
sotto la sua pelle e nel suo cuore nel modo più profondo possibile e
per quanto avesse provato a dimenticarlo, non appena era riuscita ad
allontanarsi dalla casa della sua padrona con una scusa, si era
diretta lì.
Come
una falena non aveva potuto evitare di cercare la luce, anche se
sapeva che questa avrebbe potuto bruciarla.
Era
andata a cercarlo, consapevole di poter essere rifiutata e
allontanata e, appoggiata a quella colonna, adesso lo fissava con gli
occhi dilati e spaventati dal desiderio lussurioso che stava provando
nell'osservarlo.
“Smargidusss!”
Il
grido di Invictus seguì di un attimo l'urlo spaventato di Livia,
quando Edvard, che si era distratto a guardarla, non vedendo arrivare
il colpo inferto dal suo avversario, era crollato a terra privo di
sensi senza un solo
gemito, sotto i loro sguardi attoniti e
spaventati.
“Fratello!
Svegliati! Idiota, perché non hai parato?” La voce di Invictus era
adirata e spaventata nel contempo, mentre si era inginocchiato
incredulo al fianco dell'amico per soccorrerlo.
Poi,
alzato lo sguardo in cerca di chi aveva emesso quel grido tipicamente
femminile che aveva udito, vide la fanciulla che osservava immobile e
atterrita la scena davanti a sé.
“Ah.
Ecco perché. Sono stati quei
due occhi marroni a distrarti, dunque.
Stupido ragazzo innamorato! ” Commentò a bassa voce il grosso
guerriero con un sospiro irato, poi si rivolse a Livia “Tu! Donna!
Vicino alla fontana ci sono delle pezze pulite di cotone, bagnane una
e portamela!” La sua voce autoritaria e urgente la fece scattare
come una lepre.
Quando
si avvicinò reggendo la stoffa bagnata vide che Invictus aveva
girato l'amico su un fianco e con il volto corrucciato stava
studiando la sua testa nel posto in cui lo aveva colpito.
Il
grosso guerriero prese la pezza fredda e la premette con dolcezza
sulla tempia di Smargidus, poi si rivolse alla ragazza. “Stai qua e
tienigli premuto il panno sulla tempia. Non perde sangue ma temo sia
stato un colpo violento. Io vado a chiamare il medico. Se riprendesse
conoscenza non fallo alzare, ma tienilo sdraiato e tranquillo finché
non torno con un aiuto.”
Livia
annuì mentre prendeva il posto di Invictus al fianco del suo
Smargidus continuando a tenere premuto il panno contro la sua testa e
sperando che non fosse nulla di troppo grave.
“Smargidus...”
lo chiamò dolcemente quando gli vide sbattere gli occhi incerto.
“Allora
è vero, sei qui e sei proprio tu!” Mormorò lui mettendo a fuoco
quella celestiale visione e sdraiandosi sulla schiena, ancora
stordito, mentre allungava una mano per accarezzarle il viso
incredulo.
“Ti
ho sognata talmente a lungo che pensavo fossi un fantasma scaturito
dalla mia mente. O forse sono morto e finito al cospetto degli dei?”
Livia
sorrise divertita, mentre sentiva prendere fuoco il suo io più
profondo al contatto delle sue dita sulle guance.
“Non
sei morto, malgrado la paura che mi hai fatto prendere, ed io sono
reale,” gli rispose afferrando con la mano libera quella di
Smargidus che stava scendendo verso le sue labbra, toccandola ed
esplorandola per accertarsi che non fosse una visione.
“Dimostramelo.”
la provocò lui con un tremito di felicità repressa.
Lei
era lì. Vicino a lui.
Livia
gli sorrise ed il mondo sembrò illuminarsi d'immenso mentre le
labbra di lei scesero ad assaggiare quelle di lui.
Lentamente
e timidamente si sfiorarono mentre una strana energia sembrò
scaturire dai loro corpi.
“Direi
che sta bene,” commentò Marco, il medico
che si occupava dei gladiatori della scuola e
delle loro ferite, osservando Edvard tirarsi su e afferrarla per la
nuca mentre la loro passione divampava e il loro bacio, all'inizio
casto, diventava sempre più approfondito e sensuale.
“Eh
già. Direi che si è ripreso piuttosto bene,” mormorò Invictus
con un sorriso soddisfatto sulle labbra.
“Allora
è lei la misteriosa fanciulla che lo distrae giorno e notte,”
commentò Leo, che si era unito preoccupato per la salute del suo
protetto e che aveva notato il
mutare del comportamento avvenuto in
Smargidus quella settimana.
“A
quanto pare, adesso, almeno, abbiamo una colpevole in carne ed ossa,”
confermò Invictus scuotendo la testa divertito.
“Forse
dovrei visitarlo,” mormorò incerto Marco, chiedendosi se fosse il
caso di interrompere i due prima che degenerassero e dessero
spettacolo davanti a tutti.
“Lascialo
in pace. Sono sicuro che lei lo ha già guarito. E poi Smargidus non
è uno sciocco e sa come e dove fermarsi... spero.” proferì
ridendo Leo.
Insieme,
senza più aggiungere altro, i tre si girarono lasciando Edvard a
godere di quel breve e raro momento di felicità.
“Mi
sei mancato,” mormorò Livia staccandosi a malincuore dalla sua
bocca per riprendere fiato e chiedendosi se non fosse solo un sogno
il poterlo finalmente stringere a sé e il suo baciarla così
appassionatamente.
“Anche
tu.” Rispose lui, poi i suoi occhi, all'improvviso, si incupirono
come se una tempesta fosse sopraggiunta ad oscurare il sole.
“Ti
ha mandato Agrippina?” Le chiese, temendo che fosse quello il vero
motivo per la quale Livia fosse andato a cercarlo.
“No.
Lei e il padrone saranno fuori per tutta la settimana e io
dovevo andare al mercato a comprare alcune
stoffe per la cucitrice...” spiegò lei timidamente mentre le sue
gote si coloravano di un rosa pallido.
“La
Ludus non è
propriamente vicina al mercato,” rispose Smargidus sorridendo nel
vederla con il volto arrossato e le labbra rosse, vive per i baci che
si erano appena scambiati.
“Lo
so ma… volevo vederti e
la cucitrice ha promesso di coprirmi...”
mormorò abbassando gli occhi intimidita senza immaginare che si
sarebbe trovata a fissare la sua mascolinità risvegliata e pronta.
Le
sue gote arrossirono ulteriormente diventando adesso rosso fuoco
mentre Edvard ridacchiando con le sue lunghe dita le alzava il mento.
“Te l'ho già detto non privarmi dei tuoi occhi.” Mormorò
affascinato dal suo viso e conscio del pericolo che lei stava
correndo per poterlo incontrare.
“Livia.
Io...” le parole gli morirono in bocca. Cosa doveva dirle? Edvard
non aveva mai avuto un vero amore, non sapeva neanche come si facesse
a corteggiare una ragazza. Benché adesso fosse un uomo, era stato
catturato molto giovane e, sebbene avesse avuto diverse amanti prima
che Agrippina ottenesse l'esclusiva a suon di sesterzi, non aveva
nessuna esperienza su come bisognasse comportarsi o su cosa si
dovesse dire con esattezza a qualcuno che ti aveva rapito il cuore
prima di ogni altra cosa.
E,
visto che non era un poeta ma
solo un uomo d'azione e un guerriero, decise di agire nell'unico
modo che conosceva e, baciandola, si alzò, la prese fra le braccia
muscolose e la condusse nella sua piccola, umida e spoglia
cella. Poi
una volta chiusa la porta, la fece adagiare sul suo letto mentre le
sue mani callose ma inaspettatamente delicate iniziarono a
percorrerle tutto il corpo, esplorandola ed accarezzandola
languidamente mentre lei mormorava il suo consenso.
I loro vestiti finirono uno dopo l'altro sul
duro terreno mentre insieme esploravano ed ammiravano per la prima
volta i loro corpi nudi provando un piacere fino ad ora sconosciuto
ad entrambi.
“Hai
tantissime cicatrici,” mormorò lei percorrendo con la mano il suo
corpo segnato.
Smargidus
le sorrise dolcemente mentre la sua mano afferrava quella
di lei portandosela alla bocca e
baciandole ciascun dito con lentezza e sensualità.
“Sono
un gladiatore,” rispose semplicemente con un sorriso tetro, “ed
uno schiavo” aggiunse mesto, ripensando per un attimo a quando era
stato catturato e a quando, arrivato a Roma spaventato e
indisciplinato, era stato piegato con la forza per indurlo ad
accettare il suo destino.
“Ti
amo,” mormorò lei ingoiando le lacrime che le erano salite agli
occhi, consapevole della loro condizione comune.
“Anch'io
ti amo,” rispose lui, adesso finalmente conscio dei propri
sentimenti condivisi.
Le
cose non avrebbero mai potuto cambiare per loro. Erano schiavi
assoggettati ai capricci dei loro padroni, ma soprattutto a quelli di
Agrippina che non avrebbe mai dovuto sospettare nulla. Ma nonostante
tutto la speranza di un futuro migliore germogliò nei loro animi,
una pia illusione dettata da quel nuovo sentimento sbocciato con la
forza di un vento impetuoso.
E,
immersi nella consapevolezza che il destino avrebbe potuto dividerli
da un momento all'altro, entrambi si donarono completamente senza più
remore, senza dubbi o paure, raggiungendo la pace dei sensi insieme a
quella del cuore finora in tumulto.
*
* *
Il
tempo passò indomito senza portare grossi cambiamenti. Edvard
continuò ad allenarsi e a partecipare ai vari scontri fra gladiatori
organizzati dall'avido Claudio duranti i quali combatteva accumulando
soldi e fama, in attesa di quello definitivo e mortale che gli
avrebbe permesso, nel caso fosse sopravvissuto, di incidere una nuova
tacca sul suo collare di ferro.
La
decima Tacca.
La
tacca che avrebbe cancellato la sua schiavitù, rendendolo finalmente
un uomo libero e un cittadino di Roma, in grado di scegliere del suo
futuro.
Il
tempo passò indomito mentre Livia cercava ogni occasione per andare
a trovare di nascosto il suo Smargidus. E quando riuscivano ad
incontrarsi, insieme passavano momenti dolcissimi e spensierati,
cercando di escludere il presente dalle loro menti rinchiudendosi in
una bolla di felicità, poiché erano entrambi consapevoli che prima
o poi il loro sogno sarebbe finito. E mentre si conoscevano sempre di
più, il loro amore cresceva e si rafforzava. Amore che condividevano
con ardore, amore che non era solo un bisogno fisico, ma la fusione
di due anime affini che necessitavano l'una dell'altra e che erano
ormai indivisibili.
Il
tempo passò indomito, mentre gli incontri clandestini di Edvard con
Agrippina continuavano regolari. Per lui sottrarsi ad essi sarebbe
stato impossibile e per mantenere segreto il rapporto instaurato con
la schiava della sua signora e proteggerla dalle sue ire, Edvard
continuò a venderle il suo corpo e a soddisfarla carnalmente, mentre
il suo cuore e la sua anima piangevano disperati ogni volta di più e
il suo cuscino si riempiva di quei sesterzi adesso tanto odiati.
Il
tempo passò indomito, indifferente ai continui rapporti di Turia e
alla rabbia crescente del senatore Fabio Massimo che, informato da
quest'ultima, aveva saputo di essere tradito regolarmente e aspettava
solo il momento giusto per vendicarsi dei due amanti segreti.
Il
tempo passò indomito, quando Claudio fu convocato dall'Imperatore
Domiziano che gli chiese di organizzare un grande incontro con una
lotta all'ultimo sangue tra gladiatori per festeggiare la vittoria
riportata dalle truppe romane sui ribelli barbari. Claudio cercò di
ribellarsi, perdere un gladiatore avrebbe comportato un danno ingente
per le sue casse, ma l'imperatore lo rassicurò che sarebbe stato
lautamente risarcito della perdita se entrambi i gladiatori avessero
combattuto bene.
Il
tempo passò indomito quando il senatore Fabio Massimo sborsò una
cifra esorbitante e ricattò Claudio, minacciandolo di divulgare un
documento compromettente per il quale avrebbe potuto essere tacciato
di tradimento, pur di avere la possibilità di scegliere di persona i
gladiatori che avrebbero combattuto.
L'ora
della sua vendetta era finalmente arrivata.
E
quando il tempo smise di passare indomito, i giochi erano ormai
fatti, il dado era stato tratto, ed Edvard iniziò a prepararsi per
il combattimento della sua vita, quello che, se avesse vinto
uccidendo il suo avversario, gli avrebbe aperto il collare da schiavo
e le porte della libertà.
*
* *
Smargidus
non sapeva contro chi avrebbe combattuto e la cosa non gli
interessava neanche. Il giorno prima era stato chiuso in isolamento
in una cella del Colosseo e nutrito abbondantemente. Quando aveva
chiesto spiegazioni a Claudio su quell'insolito comportamento, egli
aveva risposto “E' meglio per te stare tranquillo. Devi riposarti e
soprattutto concentrarti. Non puoi permetterti distrazioni. Questo è
un combattimento all'ultimo sangue, non il solito spettacolo. Gli
spettatori saranno migliaia, l'imperatore Domiziano sarà presente e
solo uno di voi due lascerà l'arena sulle sue gambe.
E
se vincerai uccidendo il tuo avversario, sarai un uomo libero e la
schiavitù diverrà solo uno sbiadito ricordo.”
Ciò
bastò ad Edvard che, tuttavia, era troppo eccitato per riposare.
Passò la notte precedente, infatti, a pregare Marte e Minerva che lo
aiutassero e lo proteggessero, a pensare alla sua Livia per attingere
da lei la forza necessaria e a preparare e controllare le armi e il
suo equipaggiamento con meticolosa cura, sapendo che da esso
dipendeva la propria vita.
E
finalmente il giorno arrivò.
Aiutato
da un silenzioso e preoccupato Leo, Edvard si passò gli olii sulle
braccia, sulla poderosa schiena e sulle gambe, poi iniziò a
vestirsi.
“Stai
attento Smargidus,” gli raccomandò Leo, la voce incrinata e
preoccupata “ricordati solo che non hai scelta; o tu o lui. Uno di
voi due dovrà necessariamente morire. La sabbia del Colosseo dovrà
tingersi per forza di rosso, queste sono le regole, per cui non
indugiare, non avere pietà... se non per la tua anima. La libertà
ha sempre un prezzo da pagare e nel tuo caso sarà altissimo.”
Edvard
guardò l'amico stupito.
Mai
parole simili in tanti anni e in tanti incontri erano uscite dalla
sua bocca. La tristezza che Leo irradiava era come una buia foschia
che lo avvolse per poi sparire quando la campana che convocava i
combattenti rintoccò sorda come un inno alla morte.
“Perché
mi dici questo?”
gli chiese. Ma lui tacque scuotendo la testa ed allontanandosi con
gli occhi rivolti a terra, pieni di lacrime.
Leo
aveva già ripetuto quelle stesse parole quella mattina e il suo
animo era grave e pesante, così pesante che quando si avvicinò al
suo amico Marco, gli disse addolorato “Quella
di oggi è la giornata più dolorosa che
abbia mai vissuto”
Lui
che non era più giovane e che non era riuscito ad impedire la morte
di tanti gladiatori a cui voleva bene, malgrado avesse prestato le
sue cure con tutto il suo animo e abilità, si girò a guardarlo e lo
abbracciò stretto a sé.
“È
la vita dei gladiatori... Tu sei un sopravvissuto... non tutti hanno
la tua fortuna.”
*
* *
Edvard
era un secutor e come
tutti loro indossava dei gambali di metallo imbottiti di lana per
assorbire i colpi, una manica di metallo sul braccio destro per
ripararlo dalle ferite, un corto gonnellino che gli permetteva di
muoversi con agilità mentre il petto rilucente di olio era nudo a
parte due cinghie di cuoio che gli cingevano il torace. L'agilità
era la sua arma migliore, unita ad un corto e maneggevole gladio
e a un piccolo pugio
infilato nel fodero dietro la schiena.
Nel
braccio sinistro portava con disinvoltura uno scudo imponente e
concavo, tondeggiante nella parte superiore, e privo di appigli per
evitare che vi rimanesse agganciata la rete del reziario
contro il quale avrebbe combattuto. Lo scudo
gli copriva dalle ginocchia al viso, protetto a sua volta da un elmo
liscio e tondo per evitare la rete letale.
L'elmo
era sempre molto pesante e la visiera costituita da fori in genere
molto piccoli. Per questo Edvard normalmente non lo indossava, voleva
respirare e vedere bene, era questa sua particolarità e spavalderia
il motivo per cui i suoi occhi verdi, grandi e splendenti avevano
attirato l' attenzione del pubblico donandogli il soprannome che
ormai tutti conoscevano e veneravano come un eroe.
Ma
quel giorno Edvard avrebbe indossato l'elmo obbligatoriamente e i
piccoli buchi gli avrebbero impedito di vedere con nitidezza il suo
avversario.
“Una
difficoltà in più, voluta dall'Imperatore, per rendere più
interessante l'incontro,” gli mentì Claudio, pur sapendo che
invece il vero artefice di quell’inopportuna imposizione era stato
il senatore Fabio Massimo.
Il
reziario entrò
nell’arena del Colosseo da una porta molto vicina a quella da cui
arrivò Edvard e, assieme, si diressero a passo deciso sotto la
tribuna in cui era accomodato Domiziano, l'imperatore di Roma. Senza
rivolgersi una parola, entrambi consapevoli della presenza
dell'avversario al loro fianco e certi che sarebbe stato un incontro
terribile.
Arrivati
davanti al palco chinarono entrambi la testa salutandolo a gran voce
“Ave Caesar, morituri te salutant”
poi giratosi verso la folla alzarono le armi
in segno di saluto provocando un boato in risposta. Il pubblico era
equamente diviso. Conosceva bene entrambi i lottatori che gli erano
stati presentati prima del loro ingresso, ed era consapevole che
sarebbe stato un duello infernale.
Anche
il reziario era
equipaggiato come al suo solito. Nel braccio rivestito dalla
protezione teneva un lungo tridente, mentre nell'altra mano stringeva
una lunga e pesante rete alle cui estremità c'erano dei pesi. Se
fosse riuscito ad imprigionare il suo avversario con la rete, finirlo
con il tridente sarebbe stato molto semplice. Per questo, questi
robusti e forti lottatori erano spesso schierati contro i Secutor.
La
forza bruta contro l'agilità.
Edvard,
infastidito e preoccupato per i buchi troppo stretti che gli
impedivano di vedere l'altro combattente con nitidezza e sbuffando
per il caldo, si sistemò meglio quell'odioso impedimento, rimanendo
stupito quando si accorse che anche l'altro gladiatore aveva un elmo
identico al suo che gli celava il volto; normalmente i reziari
non portavano quella protezione così restrittiva.
Probabilmente
anche il suo avversario era
stato obbligato contro la sua volontà ad indossarlo, pensò Edvard,
rasserenato da quella scoperta.
Era
stato Claudio in persona a minacciarli separatamente, “Se ti
sfilerai quest'elmo durante il combattimento per qualsiasi causa,
verrai ucciso senza indugio dai soldati schierati ai lati nell'arena.
Questo è l'ordine e la volontà dell'imperatore”
Un
valido motivo per ubbidire senza discussioni allo scomodo e
pericoloso disagio, dal momento che tutti e due speravano di uscire
vincitori da quel incontro mortale.
Edvard,
dopo aver lanciato uno sguardo alla folla urlante e aver rilasciato
un lento e grosso sospiro per calmarsi, battendo la spada sullo scudo
per salutare il suo avversario, pregò ancora una volta che gli dei
lo assistessero e lo proteggessero.
*
* *
Duellarono
a lungo scambiandosi colpi e leggere ferite. Il pubblico urlava il
suo
incitamento o il suo disappunto ogni
qualvolta uno dei due riusciva ad evitare un colpo mortale. Edvard,
ferito superficialmente in diversi punti, iniziava ad essere esausto.
Muoversi con l'elmo che non lo faceva respirare e lo scudo
pesantissimo iniziava a
fiaccarlo
riducendone la velocità e i riflessi. Ma anche il reziario
sembrava in difficoltà: i suoi colpi meno potenti, la rete mossa con
più lentezza.
I
due si fermarono a guardarsi da dietro i buchi dell'elmo. Erano pari,
sembrava che nessuno dei due potesse avere il sopravvento sull'altro
facilmente e questo stava
sfinendo
anche la loro energia mentale.
Normalmente
gli incontri venivano chiusi più velocemente ma entrambi sembravano
in difficoltà.
Edvard
lo guardò scuotendo leggermente la testa. Il suo avversario si
muoveva in maniera prevedibile e si era reso conto che la situazione
era reciproca. Entrambi riuscivano ad immaginare con anticipo le
mosse dell'altro e ciò aveva portato a quella situazione di stallo.
Lentamente
iniziarono a muoversi in tondo studiandosi per l'ennesima volta,
cercando un punto vulnerabile nell'altro
o
una falla nelle loro difese, mentre il pubblico rumoreggiava sempre
di più.
Così
non sarebbero venuti a capo di nulla, pensò Edvard che, agendo
d'istinto, buttò lo scudo a terra. Era divenuto troppo pesante per
il suo braccio e lo stava affaticando eccessivamente. Il reziario
lo guardò da dietro il pesante elmo poi, con una mossa repentina,
buttò via la rete tirando fuori da dietro la schiena il pugio.
Il pugnale che anche Edvard afferrò nella mano libera.
Un
boato di approvazione riempì il Colosseo mentre Domiziano si
sistemava più comodamente sul trono che lo ospitava.
“Avevi
detto che erano i migliori guerrieri, ed avevi ragione Claudio. Non
ho mai visto un incontro così equilibrato”
Claudio
gli sorrise tristemente. Lo sapeva benissimo e sapeva anche perché
entrambi riuscissero ad anticipare così bene le mosse
dell'avversario.
I
due gladiatori si affrontarono nuovamente. Più che un combattimento
sembrava diventato un corpo a corpo. Entrambi erano ormai ricoperti
di sudore, polvere e sangue fuoriuscito da numerosi tagli e ferite
superficiali. Se Edvard si basava sulla velocità nello scansare gli
affondi dell'avversario, cercando nel contempo un varco sicuro per
avvicinarsi, il rezore usava
la sua forza bruta per provare ogni volta ad immobilizzarlo o a
colpirlo a distanza con il tridente.
Livia
dall'alto degli spalti nascosta tra la folla urlante guardava lo
spettacolo con il cuore stretto in una morsa dolorosa. Non voleva che
il suo Smargidus morisse in quell'arena polverosa e a ogni ferita da
lui riportata nel combattimento, sentiva nel petto il cuore
sobbalzare, mentre calde lacrime scivolavano sulle sue guance,
bianche dal terrore.
Anche
la sua padrona, la bella e fredda Agrippina osservava il
combattimento dal palco regale, divisa fra la paura per il suo amante
e il sadico piacere del sangue.
Certo,
a letto Smargidus era eccezionale e lei avrebbe dovuto procurarsi un
sostituto per rallegrare le sue notti solitarie quando il senatore si
allontanava, ma il saperlo in pericolo la stava eccitando più di
ogni altra cosa.
Il
senatore Fabio Massimo invece osservava il combattimento con un
sorriso maligno disegnato sul volto. Comunque sarebbe andata, anche
se avesse vinto quel bastardo di Smargidus, l'amante di sua moglie,
ne sarebbe comunque uscito a pezzi e la vendetta sarebbe stata
ugualmente dolce se lui fosse sopravvissuto a spese del suo
avversario.
Edvard
si avventò sul reziario
ancora una volta sfruttando un leggero sbandamento di quest'ultimo,
forse dovuto alla stanchezza. Anche lui era sfinito e buttando la
spada e stringendo di più il pugio
nella mano, letteralmente lo abbracciò infilandogli la corta lama
nella schiena all'altezza delle scapole mentre cadevano avvinghiati.
Ma
il sorriso soddisfatto di Edvard gli morì sulle labbra allorché
sentì una fitta dolorosissima all'attaccatura della gamba destra,
sotto al gluteo. Al rallentatore, con il dolore che si propagava in
ogni sua fibra, il gladiatore dagli occhi di smeraldo fissò sgomento
il nero tatuaggio a forma di pesce che il suo avversario portava
sulla scapola sinistra dove era affondata la sua lama.
Lui
lo aveva già visto! Lui sapeva chi si nascondeva dietro a quell'elmo
e in preda ad una furia ceca, sapendo che probabilmente non ci
sarebbe stata nessuna vittoria e nessun superstite a quel
combattimento, si sfilò l'odiato elmo che gli aveva impedito di
notare il particolare. Poi, abbracciando il corpo dell'uomo che amava
come un fratello, tolse l'elmo dal suo viso per guardare in faccia
un’ultima volta Invictus che lo osservava con gli occhi sgranati
dallo stupore e che poi, inaspettatamente, gli sorrise ridacchiando
come era solito fare.
“Che
cretino che sono. Dovevo accorgermene che eri tu da come combattevi.
Ci siamo allenati così tante volte insieme...” la sua voce si
spezzò in un gemito di dolore.
Edvard
insensibile
alle urla della folla, girò piano
l'amico e con sua gioia constatò che il colpo inflitto era laterale
e non mortale come aveva temuto in un primo momento. Il loro amico e
medico Marco sarebbe riuscito a salvarlo quasi sicuramente se fosse
intervenuto in tempo e se lui non avesse rimosso il pugio
impedendo così
una brutta emorragia.
Anche
il colpo ricevuto da lui non era di per sé mortale e, malgrado il
dolore e il sangue che fuoriusciva abbondante, Edvard sapeva che
anche la sua ferita avrebbe potuto guarire se il loro amico guaritore
si fosse preso cura di lui.
Per
un attimo i due gladiatori si guardarono negli occhi incuranti del
grido che ormai la folla urlava all'unisono.
“Morte!”
Chiedevano a gran voce. “Combattete!” Urlavano inferociti da
quella pausa apparentemente ingiustificata.
Era
stato definito e presentato come un duello all'ultimo sangue e adesso
gli spettatori pretendevano che il sangue sgorgasse e bagnasse di
rosso la sabbia.
In
teoria entrambi avrebbero dovuto rialzarsi e continuare a combattere
fino a che uno dei due, sfinito dalla ferita riportata, non avesse
spirato l'ultimo soffio di vita sulla lama dell'avversario, per
soddisfare la gioia crudele dei romani.
“Dobbiamo
continuare a combattere,” mormorò piano Invictus cercando di
mettersi in piedi. Sapeva di essere messo peggio, sapeva che Edvard
aveva più possibilità di vincere, ma non si sarebbe tirato indietro
dalla sua sorte. “Finiscimi alla svelta, uccidimi senza indugiare e
sopravvivi, amico mio.” gli disse annuendo convinto.
Smargidus
scosse la testa, si alzò barcollante trascinandosi dietro la gamba
ferita e disarmato, con le mani che gli tremavano dal dolore e dalla
rabbia, iniziò ad allontanarsi dando la schiena ad Invictus, al suo
imperatore e a tutto il popolo di Roma.
Non
si sarebbe mai macchiato le mani del sangue del suo migliore amico!
Che
i romani e l'imperatore lo mandassero pure a trovare il dio degli
inferi, lui non avrebbe più combattuto. Non quel giorno, non contro
quello che lui considerava un fratello.
La
folla ammutolì un attimo per quel gesto che appariva ai loro occhi
una vigliaccheria, poi riprese il suo urlo con più vigore “Morte!”
gridavano gli spettatori senza capire perché i gladiatori avessero
smesso di battersi, dal momento che anche Invictus era fermo in
ginocchio nel centro dell'arena con gli occhi abbassati sul terreno
sabbioso, disarmato e per nulla intenzionato in apparenza a
combattere ancora.
I
legionari di guardia, schierati lungo i bordi dell'arena, ubbidendo
ad un gesto dell'Imperatore, avanzarono armati e circondarono i due
gladiatori ribelli.
Anche
Domiziano, come tutti gli altri, guardava l'atteggiamento dei due
feriti, stupito e incredulo. Così si rivolse a Claudio in cerca di
una spiegazione che da solo non trovava: “Che succede? Perché si
sono fermati? Perché non finiscono l'avversario?”
Lui
scosse la testa e sospirò. “Appartengono entrambi alla mia scuola.
Si conoscono e sono amici,” mormorò affranto.
Da
dietro intervenne il senatore Fabio Massimo additando i due
gladiatori che adesso si guardavano immobili, le mani abbassate, i
pugnali piantati nel corpo che si stava tingendo del rosso del loro
sangue che sgocciolava dalle ferite. “Non
importa. Devono continuare il combattimento. È un incontro
all'ultimo sangue. Non possono fermarsi così.”
Invictus,
in ginocchio si teneva
il braccio offeso con l'altro e
tremava, consapevole che entrambi sarebbero stati uccisi per quella
ribellione, ma neanche
lui avrebbe più alzato la mano contro
il suo amico Smargidus.
“Portateli
qua vicino,” ordinò Domiziano ai soldati, alzando poi la mano per
zittire la folla.
I
due vennero afferrati e trascinati davanti all'imperatore, dove
vennero fatti inginocchiare al suo cospetto.
Domiziano,
che si era avvicinato alla balaustra, li osservò pensieroso. Guardò
il sangue e le ferite, vide l'orgoglio nelle loro schiene dritte e il
dolore nei loro occhi.
“Questo
è un duello all'ultimo sangue. Uno di voi due deve morire. Dovete
riprendere a combattere.” Affermò, osservandoli attentamente alla
ricerca di una loro reazione di paura.
“Non
lo ucciderò, mio Cesare, non combatterò più per voi. Date pure ai
vostri soldati l'ordine di uccidermi qui e adesso in modo che il mio
sangue bagni l'arena. Se è una vita che volete... prendetevi pure la
mia.” Disse immediatamente Smargidus appoggiandosi con le mani
sulla sabbia e tirando fuori il collo come se avesse un ceppo davanti
a lui su cui posare la testa in attesa del colpo fatidico.
“No,
mio imperatore. È lui che deve essere salvato. È un combattente
migliore, non troverete un secutor
più bravo di lui in tutto l'impero. Date invece ai vostri uomini
l'incarico di uccidere me,” affermò Invictus, mostrando il petto
pronto ad essere trafitto e aprendo le spalle pieno di orgoglio per
il suo gesto.
Domiziano
sorrise.
Gli
imperatori difficilmente conoscono la lealtà e l'amicizia. E vedere
quei due valorosi sfidare la morte per salvare l'altro era uno
spettacolo a dir poco affascinante e inconsueto.
Sempre
con il sorriso sulle labbra, divertito suo malgrado, l'imperatore di
Roma si rivolse alla folla.
“Chi
deve morire secondo voi?” Chiese, lasciando agli spettatori il
giudizio finale.
Per
un attimo regnò il silenzio, poi scoppiò il caos. Erano entrambi
molto amati e i loro tifosi iniziarono a gridare il nome
dell'avversario. Una cacofonia incomprensibile che venne interrotta
da una voce femminile acuta proveniente da dietro le spalle di
Domiziano.
Fu
infatti Agrippina a pronunciare ad alta voce e con il cuore stretto
“Smargidus”.
Non
avrebbe voluto che finisse così, ma quando aveva visto quello che
era accaduto si era resa subito conto del ruolo avuto da suo marito.
Lui aveva organizzato tutto. Questa era la sua vendetta verso i due
amanti. E lei se voleva ingraziarsi nuovamente Fabio Massimo e farsi
perdonare delle sue scappatelle doveva dimostrare fedeltà al
senatore, suo marito. “A morte Smargidus, in fondo è stato lui a
levarsi l'elmo per primo infrangendo le regole e sfilandolo poi al
suo avversario,” disse decisa ad alta voce. Le sue parole
portatrici di verità giunsero chiare e risolute all'orecchio
dell'Imperatore, finora indeciso sulle sorti dei due gladiatori che
attendevano in silenzio il suo verdetto.
Domiziano
alzò gli occhi verso di lei annuendo mentre riconosceva giusto il
suo ragionamento e stringendosi nelle spalle, infastidito suo
malgrado dal dover emettere una condanna a morte, silenziata la folla
decretò ad alta voce che sarebbe stato Smargidus a morire.
All'udire
il verdetto Invictus, sgomento e incredulo, cercò disperatamente di
ribellarsi al suo ordine ma fu bloccato dalle braccia dei soldati e
trascinato lontano.
Evdard
invece, pur sentendo il temuto e sperato giudizio, rimase fermo nella
stessa posizione.
Gli
occhi chiusi per evitare di guardare la lama cadere sul suo collo,
pregò che chi lo avrebbe
colpito, sapesse il fatto suo e riuscisse nel suo intento al primo
tentativo, facendola così finita velocemente. Lui non aveva paura
della morte. Ci aveva giocato assieme tante volte, era stata sua
compagna di viaggio a lungo.
Temeva
invece la sofferenza, il dover sopportare il dolore di numerosi colpi
prima che la sua testa rotolasse infine via dal corpo.
Lacrime
silenziose scivolarono dai suoi occhi e caddero sul terreno sabbioso
formando piccoli cerchi umidi che sarebbero presto
stati assorbiti come il sangue che di
lì a poco sarebbe fuoriuscito dal suo
collo reciso.
Livia,
che aveva assistito alla scena con terrore e orrore, lanciò un urlo
disperato quando sentì il verdetto di Domiziano.
Non
era possibile! Non potevano ucciderlo così, a sangue freddo, in
quella maniera terribile e, sgomitando disperata, si fece largo tra
la folla saltando poi dentro l'arena e correndo dal suo amore in
pericolo.
L'Imperatore,
la mano ormai alzata pronta a dare l'ordine alla guardia che si era
posizionata al fianco di Edvard, si bloccò nel vedere quella giovane
e bellissima schiava correre verso di loro.
“Vi
prego no!! Ha combattuto bene e con valore. Salvatelo, concedetegli
la grazia!” lo implorò, cadendo davanti a Smargidus che provò
inutilmente ad alzarsi per scacciarla via e metterla in salvo.
“Prendete
la mia vita piuttosto,” gridò lei afferrando il gladio di
Smargidus abbandonato sul terreno e appoggiandoselo al petto.
“Permettetemi di morire al suo posto. Che sia il mio sangue ad
essere versato oggi e non quello di questo valente gladiatore!”
Domiziano
la osservò incuriosito e affascinato suo malgrado dalla devozione di
quella ragazza innocente.
Era
un imperatore equilibrato, attento al benessere e alla felicità del
popolo e, perché no, anche attento alle sue casse.
“Quanto
vale la vita di quel gladiatore Claudio?” Chiese rivolgendosi al
nobile che sedeva vicino a lui con l'aria avvilita.
“Tanto
Cesare,” disse immediatamente, rianimandosi. “Sono entrambi i
migliori, e perderli significherebbe un gran danno per la mia Ludus
e un grande esborso per le casse dello stato.”
Domiziano
annuì poi, alzata la mano per zittire la folla, parlò ad alta voce
affinché tutti sentissero la sua volontà:
“Questa
donna, questa insignificante schiava è pronta a dare la vita per un
gladiatore. Pronta a morire al suo posto, al posto di un guerriero
che ha combattuto con onore e valore di fronte a voi. Egli ha
affrontato senza paura il suo avversario. Si è battuto
coraggiosamente e adesso è pronto a morire con onore, senza paura o
tentennamenti, per salvare un commilitone, proprio come i nostri
legionari morti per rendere grande Roma. Voi volete sangue e morte,
ma io dico che siamo qua per festeggiare una vittoria ottenuta con la
vita dei nostri soldati caduti. Dei nostri eroi. E che questi due
gladiatori, questi due valorosi combattenti, hanno mostrato il loro
valore in questa arena, si sono battuti senza risparmiarsi, hanno
mostrato quale forza di volontà possiede il popolo di Roma.
Il
nostro popolo. E questa donna, questa schiava, pronta a sacrificarsi
al posto di questo valente guerriero, ci ha ricordato quali siano i
sentimenti e la forza che rendono grandi il nostro Impero, la nostra
cultura e i nostri uomini! Se siamo i padroni del mondo, se il nostro
impero è così grande e potente, lo dobbiamo anche alle nostre
donne, siano esse libere romane o umili schiave.
Pertanto
io, Domiziano, vostro Cesare, affermo che per oggi è già stato
versato troppo sangue e troppe lacrime! Io dico
che oggi deve essere un giorno di gioia per tutto il nostro popolo. E
che bisogna festeggiare la vittoria riportata sui nostri nemici e non
piangere sui nostri caduti.”
Dopo
un attimo di silenzio, con un improvviso e sfuggente dolce sorriso
sul viso spigoloso aggiunse, “Andate in pace prodi gladiatori,
riposatevi e guarite dalle vostre ferite, perché il vostro coraggio,
la vostra abilità e il vostro cuore hanno reso onore al popolo di
Roma.” La sua voce si spense ancora un attimo e dopo aver lanciato
un ultimo sguardo e un sorriso diabolico alle facce stupite dei
presenti sul palco aggiunse “Così, io, Domiziano, vostro
Imperatore e vostro Cesare, ho deciso!” Concluse in un boato di
gioia che esplose nel Colosseo mentre zoppicando i due feriti, ancora
increduli della grazia ricevuta, vennero accompagnati fuori
dall'arena da Livia e dai soldati che li avevano circondati. Lì
vennero accolti da Leo e Marco ebbri di gioia nel vederli tornare
entrambi vivi.
*
* *
Erano
passati sette giorni. Giorni lunghi e difficili. Malgrado la ferita
fosse più grave, Invictus si era ripreso subito. Ma lo stesso non
era stato per Smargidus.
Una
volta usciti dall'arena entrambi i gladiatori erano stati sistemati
sulle barelle e portati all'interno per essere curati mentre Livia
era stata allontanata.
“Fermati
donna. Tu non puoi entrare!” La voce di Leo era determinata sebbene
sul viso ci fosse un dolce sorriso e gli occhi la scrutassero pieni
di gratitudine e ammirazione per il suo coraggio.
“Voglio
vedere come sta Smargidus,” lo implorò lei.
Ma
Leo scosse la testa. “Ci occuperemo noi di lui, verrà curato nel
migliore dei modi ma alle femmine non è permesso entrare in questo
luogo.” E detto questo l'accompagnò fuori, chiudendosi poi la
porta alle spalle in maniera definitiva.
Così,
rassegnata, si era allontanata pregando che gli dei vegliassero sul
suo amore e che il medico abituato a curare quel genere di ferite
dimostrasse ancora una volta la sua abilità e lo salvasse.
Purtroppo
la ferita di Edvard si era infettata, malgrado, dopo aver estratto il
pugnale e cucito il taglio, Marco avesse bruciato la carne proprio
per evitare quell'eventualità tanto temuta.
La
febbre era salita velocemente,
tormentandolo ed indebolendolo e nemmeno i salassi per pulirgli il
sangue cattivo sembravano avere effetto. Dopo cinque giorni d'immensa
sofferenza Edvard era infine caduto in un torpore dei sensi che lo
stava portando a perdere lentamente la vita.
Claudio
entrò nella stanza adibita ad infermeria dove Marco assisteva quello
che ormai considerava un moribondo.
“Come
sta?” Chiese il proprietario della Ludus
avvicinandosi al letto dove bianco in viso riposava Edvard, ormai
sfinito e indebolito da quell'ultima battaglia che purtroppo stava
perdendo.
Marco
scosse la testa impotente. “Non reagisce. È talmente debole che
non riesco più nemmeno a nutrirlo. Grazie alle erbe medicinali che
ho applicato l'infezione è ormai quasi guarita e la febbre si è
abbassata a livelli accettabili ma è come se si stesse lasciando
morire. Resta sveglio e cosciente solo per pochi minuti ormai.”
Claudio
guardò il medico. Aveva le occhiaie dalla stanchezza ed era chiaro
dalla sua voce depressa che aveva fatto tutto il possibile per
salvare quel ragazzo. Aveva messo in campo tutte le sue conoscenze
sulle erbe, altrimenti l'infezione non si sarebbe mai fermata e la
febbre non sarebbe scesa. Ma il buon medico
non aveva pensato che c'era un’altra malattia da sconfiggere... e
lui conosceva l'unica medicina che poteva ancora salvare quel
gladiatore.
“Smargidus
aprì gli occhi ! Ascoltami!” Gli ordinò perentorio Claudio
sedendosi sul letto nel quale il ragazzo sofferente giaceva in un
dormiveglia agitato.
Edvard
aveva imparato ad ubbidire senza tentennamenti a Claudio.
Era
stato lui ad acquistarlo come schiavo quando, prigioniero, era
arrivato a Roma.
Il
ragazzo barbaro era stato piegato con la forza ed aveva imparato ad
eseguire gli ordini con la frusta o con le altre terribili punizioni
corporali subite ad ogni mancanza. Nel tempo aveva imparato a
rispettare i voleri del suo padrone e adesso era consapevole che ogni
sua parola era legge e obbediva ormai in maniera automatica.
Gli
occhi di Edvard si aprirono lentamente e con fatica.
“Ascoltami
attentamente!” Ordinò Claudio, ancora una volta, vedendo le iridi
del suo gladiatore preferito brillare di attenzione e febbre mentre
lottava contro le palpebre che tentavano di richiudersi. “Io ti
ordino di guarire. Invictus l'ha già fatto. È salvo e in ottima
salute e in questo momento si sta allenando con Leo. Tu hai
combattuto bene, con coraggio, mi hai fatto fare un’ottima figura e
guadagnare parecchi sesterzi e malgrado il sangue non sia stato
versato nell'arena come stabilito dal regolamento, ho deciso di
concederti ugualmente la Decima Tacca. Ho già dato gli ordini
affinché essa venga incisa sul tuo collare quando sarai guarito... e
quando riuscirai a metterti in piedi sarai finalmente libero di
andare per la tua strada e costruirti la tua vita. E se lo desideri
potrai andare a cercare quella coraggiosa ragazza che ti ha salvato
la vita. Hai finalmente conquistato con la spada ciò che a lungo hai
desiderato. Adesso non ti resta che sconfiggere e vincere la morte
che ti sta reclamando, per ottenere la tua ricompensa.”
Smargidus
non disse nulla ma chiuse gli occhi mentre un sorriso gli rischiarava
il volto tirato.
“Ecco,
adesso guarirà,” affermò Claudio “Ora ha un motivo valido per
cui lottare e vivere,” aggiunse soddisfatto.
Marco
lo guardò stupito, “Così perderai il tuo migliore gladiatore. Se
lo renderai libero non credo che continuerà a combattere per te. Non
è come Leo. ”
Claudio
si voltò a guardare il suo migliore medico con gli occhi che gli
brillavano “Lo avrei
perso comunque. La morte lo avrebbe reclamato nel giro di un paio di
giorni, lo hai detto tu stesso. E un gladiatore morto non serve a
nulla. E poi, nonostante non abbia ucciso il suo avversario, si è
ampiamente guadagnato la sua libertà,” aggiunse sibillino
ripensando all'accordo stretto con il senatore Fabio Massimo: “
Come vuoi. Farò combattere, all'ultimo sangue, Smargidus contro il
suo migliore amico in questo scontro folle e fratricida, ma in cambio
mi devi consegnare il documento che attesta il mio tradimento.”
E
così era stato fatto!
*
* *
Claudio
aveva avuto ragione. Ciò che mancava a Smargidus era proprio un
motivo valido per cui continuare a vivere.
Infatti
dopo pochi giorni Edvard si era ripreso ed adesso stava cavalcando
lentamente per le strade di Roma visto che non sarebbe riuscito a
camminare a lungo. Zoppicava ancora vistosamente ma soprattutto era
ancora troppo debole per affrontare il lungo percorso che lo
attendeva. Marco avrebbe voluto tenerlo a letto di più ma lui, non
appena si era reso conto di riuscire a stare in piedi da solo, si era
allontanato dopo aver ringraziato e salutato tutti senza voler
sentire ragioni.
Gli
sarebbero mancati i suoi amici e i combattimenti. Gli incitamenti
della folla che lo osannava e la sensazione di sentirsi forte e
invincibile, ma finalmente aveva ottenuto ciò che desiderava: la
libertà.
Quando
la porta dell'odiata domus
si aprì davanti a lui, Edvard avanzò titubante nel vestibolo e una
voce forte e maschile lo accolse.
“Benvenuto
Smargidus. Cosa ti porta in questa casa a quest'ora?” Il senatore
Fabio Massimo era lì in piedi e la sua voce era roca e stizzita “Se
è mia moglie Agrippina che cerchi, sappi che è andata via.”
Aggiunse poi guardando l'uomo che lo fissava con gli occhi bassi.
La
mano di Edvard si alzò lentamente a toccare il suo collo per avere
conferma di non aver sognato. Il collare di ferro, simbolo della sua
schiavitù, era stato rimosso quella mattina come promesso da
Claudio, e lui ora era un uomo libero e non più uno schiavo.
Con
un profondo respiro tirò su la testa e lo fissò negli occhi,
un’operazione per lui prima impossibile visto il suo basso rango.
Ma adesso era finalmente libero e con dei diritti. Ma la sua voce,
malgrado tutto, risuonò ancora pacata e riverente “Non cerco
vostra moglie. Sono qua per un altro motivo.”
Il
senatore fissò quegli occhi verdi, profondi e decisi e vi scorse la
consapevolezza di non essere più uno schiavo ma anche una vena di
timore e reverenza.
Un
sorriso tirato gli allargò le labbra e mentre ad alta voce disse
“Rufo, versaci due coppe di vino bianco.”
Un
ragazzino minuto e timido, dagli occhi leggermente tirati in su e la
carnagione olivastra, si mosse con una grazia quasi felina.
Edvard
lo guardò versare il vino, stupito dalla sua presenza che non aveva
notato prima e dalle movenze decisamente femminili del ragazzo.
“Un
bel maschietto vero?” gli chiese il senatore, facendo cenno al
nuovo schiavo di allontanarsi e uscire dalla stanza, mentre gli occhi
attenti ed avidi posati su di lui sembravano spogliarlo ad ogni
passo.
Edvard
lo guardò un attimo pensoso mentre afferrava il bicchiere, poi con
un sospiro disse “Voi sapevate,” non era un’accusa ma solo una
constatazione.
“Dei
giochini di mia moglie con te? Sì. Ho iniziato a sospettare un po'
di tempo fa, poi ho avuto le prove. Da quando vi incontravate?” La
voce era calma, quasi rassegnata.
“Da
un po'.” Rispose lui vago. Era assurdo ferirlo ulteriormente.
Lui
sorrise, “Molto diplomatico da parte tua, per essere solo un bel
gladiatore. Comunque sia, in fondo, mi hai fatto un favore. Con la
scusa del suo tradimento ho allontanato Agrippina mandandola in
campagna da sua cugina. Lì non potrà fare altri danni... ed io ho
trovato qualcun' altro di più piacevole a scaldarmi il letto,
piuttosto che quella tigre arrabbiata e perversa.”
Edvard
lo guardò indeciso, poi posò su un basso mobiletto la coppa di vino
intonsa che si era solo rigirato tra le mani. “Siete stato voi ad
organizzare l'incontro. Era la vostra vendetta,” affermò con un
filo di voce.
“Vendetta?
Che parola
brutta e pericolosa da pronunciare, Smargidus. Diciamo che è stata
la mia lezione. In
fondo, alla fine l'hai scampata, no? E anche il tuo amico ho sentito
dire...” affermò sorridendogli apertamente per la prima volta.
Lui
si limitò ad annuire. Iniziava ad avere paura. Non era bravo con le
parole mentre queste erano l'arma che il senatore usava normalmente.
Un’arma
che poteva facilmente diventare letale.
“Comunque
non mi hai ancora detto il perché sei venuto qua. Cosa vuoi da me?”
gli chiese il senatore sorseggiando e gustando lentamente il suo
vino.
“Voglio
che mi vendiate Livia. La schiava che lavora per voi.”
Ecco
l'aveva detto. E con una mano si staccò il sacchetto di cuoio
robusto che portava in vita. Era pieno di monete, tutte quelle che
aveva guadagnato, tutte quelle che aveva messo da parte in quegli
anni per garantirsi un futuro una volta che avesse smesso di
combattere e avesse conquistato la sua libertà.
Ma
siccome non ci sarebbe stato alcun avvenire senza di lei...
Edvard
era pronto a rinunciare a tutto pur di donarle la libertà che lui
era riuscito a conquistare, pur di poter passare gli anni che gli
restavano da vivere assieme. Sapeva che senza denaro il futuro non
sarebbe stato facile, ma... era pronto a tutto. Insieme avevano
sconfitto la morte, insieme potevano costruirsi una nuova vita.
Nulla
li avrebbe potuti fermare, nemmeno la povertà.
Il
sacchetto cadde pesantemente sul mobile vicino al senatore il quale
affondò la mano afferrando delle monete e tirandole
fuori, con lo sguardo pensoso mentre le
faceva scivolare attraverso
le dita e
tintinnare nuovamente dentro.
“Già,
è vero. Mi ero dimenticato. La schiava che ti ha salvato la vita, se
non sbaglio,” affermò circospetto. “Agrippina voleva portarsela
dietro. Penso volesse vendicarsi del suo amore tradito. Amare il suo
giocattolo, soffiarglielo via da sotto al naso... no, non andava
affatto bene. Era un affronto che mia moglie non le avrebbe
facilmente perdonato. È sempre stata vendicativa, lo sai.”
Commentò assorto mentre un brivido di paura scendeva nella schiena
di Edvard.
“Ma
non l'ho permesso,” affermò il senatore con un sospiro, “Una
piccola vendetta nei confronti della mia cara e infedele
mogliettina.” Aggiunse ridacchiando, poi indicando i sesterzi gli
chiese “Te li ha dati Agrippina? Sono i soldi che ti elargiva in
cambio del tuo corpo?”
Edvard
rimase un attimo in silenzio, insicuro su cosa rispondere, poi decise
che era meglio dire la verità.
“Sì,
in parte. È vero, lei mi pagava profumatamente, e qui dentro ci sono
i suoi compensi ma ci sono anche quelli che Claudio ci donava come
incentivo e i premi che ho guadagnato
negli incontri o che mi sono stati elargiti dai nobili soddisfatti
dello spettacolo offerto... o più facilmente dalle loro mogli,”
aggiunse con un sorrisino timido.
Fabio
Massimo ridacchiò, nonostante tutto non riusciva ad odiare
quell'uomo. Lo aveva visto combattere più di una volta e lo ammirava
per questo. Ammirava il suo coraggio e la sua determinazione, mentre
invidiava il suo fisico e la lussuria che sembrava scatenare in ogni
donna, anche se in fondo era stato solo un povero disgraziato, uno
schiavo, che aveva venduto il corpo a quell'arpia di sua moglie in
cambio di denaro.
Il
senatore ci pensò un attimo, poi afferrata la borsa con i sesterzi e
gliela tirò fra le braccia.
“Riprenditi
i tuoi soldi, gladiatore. Considerali un equo compenso per aver
sopportato mia moglie per tutto questo tempo. Non oso immaginare cosa
ti abbia fatto passare quella tigre assatanata.” gli disse, poi
aggiunse “E ovviamente portati pure via quella schiava. Non mi
serve. Troppe donne qua dentro non vanno bene, chiacchierano troppo e
poi ho Rufo che può fare il suo lavoro benissimo,” aggiunse
vedendolo trasalire.
Edvard
rimase un attimo in silenzio scioccato poi abbassò la testa in una
formale riverenza, “Grazie” disse emozionato, sapendo che con
quei soldi avrebbero potuto mantenersi per qualche tempo e magari
comprarsi una casetta in campagna con un po' di terreno da coltivare.
“Vattene,
sparisci. Non ti voglio più vedere.” Gli intimò Fabio Massimo,
poi aggiunse severo “Vai via da Roma, lontano da qua e se mai ti
troverò ancora nei pressi della mia dimora o
di mia moglie ti farò crocifiggere. Non lo scordare mai !”
Edvard
lo guardò e annuì. La minaccia non lo spaventava, aveva altri piani
e un intero mondo davanti a sé.
*
* *
Livia,
inginocchiata a terra, stava lavando il pavimento.
Insieme alle altre schiave stava pulendo la grande sala dove
l'indomani il senatore avrebbe dato una sfarzosa
festa.
La
voce delle ragazze riempiva le sue orecchie ma lei non le ascoltava.
La sua mente era lontana chilometri.
Vedeva
e rivedeva le scena del duello nella sua mente e si domandava se lui
fosse sopravvissuto e, se sì, che fine avesse fatto. Non aveva più
avuto sue notizie. Forse era partito con la sua padrona, con
Agrippina. Forse invece aveva cambiato semplicemente amante. Se fosse
stato così si sarebbe rassegnata, ma se lui fosse morto... il dolore
al petto la piegò in avanti. Era sempre così quando i suoi pensieri
volgevano al peggio. Era come se un ferro rovente le perforasse il
petto.
All'improvviso
si accorse del silenzio che la circondava. Le altre ragazze si erano
ammutolite e immobili fissavano qualcosa alle sue spalle.
Lei
si girò e rimase a fissare due occhi verdi come smeraldi che la
guardavano.
“Smargidus...
sei vivo!” Urlò, alzandosi da terra come un fulmine e
precipitandosi fra le sue braccia, rischiando di farlo cadere.
“Sei
tu. Sei proprio tu,” gli disse incredula accarezzandogli le braccia
con dolcezza per essere sicura fosse reale. Temeva fosse un fantasma
venuto a tormentarla, una visone creata dalla sua mente impazzita dal
dolore. Era pallido e chiaramente dimagrito, ma era sempre lui,
sempre il suo amore proibito.
“No.”
Disse piano lui afferrando con le sue mani grandi e forti quelle
di lei. “Smargidus è morto.” Affermò,
lasciandola per un secondo interdetta e costernata e con gli occhi
spalancati dal terrore.
“Non
sono più un gladiatore e uno schiavo. Adesso sono un uomo libero. E
il mio nome è Edvard.” Aggiunse con quel sorriso sghembo che la
trapassava ogni volta.
Lei
arretrò, all'improvviso spaventata, gli occhi puntati sulla striscia
di pelle pallida e bianca che un tempo era coperta dal collare adesso
sparito. Poi si affrettò ad abbassare lo sguardo come si conveniva
ad una schiava di fronte ad un cittadino romano.
“Sei
venuto a salutarmi? Partirai?” Gli chiese, ingoiando a vuoto e
sentendo le gambe che le stavano cedendo e il cuore farsi in mille
pezzettini.
“Sono
venuto a comprarti. Tu adesso sei mia Livia,” mormorò lui
allungando le mani per accarezzarle le spalle nude.
“Sì,
mio signore,” mormorò lei, ferita, inchinandosi davanti a lui,
davanti al suo nuovo padrone.
“Non
hai capito Livia? Non hai capito amore mio?” Le disse lui
afferrandola e facendola raddrizzare. “Sono venuto a liberarti,”
affermò con un sorriso
sulle labbra nel vederla spalancare gli
occhi sorpresa. “Ho comprato e riscattato la tua libertà,”
aggiunse con la voce che gli tremava leggermente dall'emozione.
Poi
inginocchiandosi davanti a lei, tenendole una mano stretta fra le
sue, disse “E adesso ti chiedo di rispondermi da donna libera: mi
vuoi sposare? Vuoi venire via con me? Vuoi diventare mia moglie
davanti ad ogni cittadino romano e non?”
Un
silenzio pieno di aspettative ed emozione cadde tutto intorno a loro.
Il
tempo sembrò fermarsi, dilatarsi all'infinito prima che Livia con
gli occhi pieni di lacrime gridasse: “Sì. Sì. Sìììì. Lo
voglio Edvard. Lo voglio”.
Lui
le sorrise raggiante poi si alzò
barcollando e l'afferrò repentino
prendendola in braccio e sollevandola da terra agevolmente, come
fosse una leggera e impalpabile piuma, mentre le braccia di lei si
stringevano al suo collo muscoloso e le loro labbra bagnate dalle
lacrime di entrambi si univano in un bacio liberatorio.
Sempre
tenendola fra le sue braccia, malgrado zoppicasse vistosamente,
Edvard diede le spalle a quella casa tanto odiata, mentre le altre
schiave esplodevano in applausi e grida di gioia.
Una
meravigliosa favola si era realizzata sotto ai loro occhi.
E
sempre stringendola stretta a sé, come se qualcuno potesse
rubargliela, Edavard salì con lei sul cavallo che Leo, Invictus e
Marco gli avevano donato quella mattina quando, emozionato, aveva
detto loro addio e insieme, senza più voltarsi, si allontanarono in
mezzo alla folla dicendo per sempre addio a Roma e a tutto il loro
passato, diretti verso l'unica meta che ora entrambi agognavano... la
felicità.
Fine
?
E
vissero felici e contenti?
Nessuno
lo saprà mai, così come non si conosce nulla della vera vita di
Smargidus. La storia ci ha tramandato per scritto solo il suo
soprannome e la certezza che fu un grande gladiatore... nulla di più.
Non so se morì nell'arena o riuscì a conquistare la sua libertà e
la sua felicità.
Ma
io voglio immaginarlo tornare nelle terre che lo avevano visto
nascere da uomo libero e con Livia generare quei figli che
continueranno a rendere grande l'Impero di Roma e dal quale, in
qualche arcano modo, ancora adesso ne siamo la discendenza.
Fine